Ho appena finito di leggere il Manifesto animalista di Michela Vittoria Brambilla e subito ho pensato che il titolo potrebbe dare torto a questo libro così importante e così pieno di sagge riflessioni. Nel nostro Paese, infatti - vuoi per l'estremismo di certi movimenti, vuoi per un certo moralismo deteriore che aleggia soprattutto tra le persone sempre inclini alla denuncia, ma non all'umile e modesta azione concreta - la parola «animalista» suscita spesso atteggiamenti di sufficienza e di irritazione.
(Ansa)
Il retropensiero è presto detto: ma in fondo cosa vogliono questi fanatici? Ci sono cose ben più importanti di cui occuparsi: la fame nel mondo, le guerre, la pedofilia, etc. Certo, se pensiamo alla vita e al mondo come un insieme di realtà stagne, incomunicabili e ininfluenzabili le une dalle altre, questa accusa trova la sua ragione di esistere, così come lo trova se crediamo che la realtà sia solo materia e che il suo senso ultimo sia esclusivamente quello di produrre altra materia - denaro, benessere, sovrabbondanza. Ma se invece reputiamo che il nostro rapporto con la realtà sia qualcosa di più complesso, di infinitamente più sottile, e che ciò che ci lega a lei sia il frutto di un dialogo ininterrotto tra la mente e il cuore, non possiamo non interrogarci su come questo orrore si insinui e modifichi la nostra vita di tutti i giorni.
Il libro, i cui proventi andranno integralmenteasostenerei nostri amici in difficoltà, è diviso in dieci capitoli che affrontano ognuno un punto critico della sofferenza animale. Si parte dalla chiusura di Green Hill, per passare poi al problema del randagismo, agli orrori della vivisezione, alla sofferenza degli animali selvatici nei circhi, senza ignorare la crudele follia degli allevamenti intensivi. Leggendo questo libro, non ho potuto fare a meno di pensare ai bambini, al loro innato amore per la natura e al loro desiderio di difendere e di proteggere queste creature più deboli. Se loro sapessero che cosa c'è dietro a quello che le loro madri inconsapevolmente mettono loro nei piatti, sicuramente si sentirebbero male.
Il tradimento del patto tra l'uomo e l'animale domestico, cioè quello più antico creatosi fra due specie diverse nella storia dell'evoluzione, è sicuramente uno dei punti su cui bisogna riflettere con più lucidità e con più forza. L'irrompere del consumismo alimentare ha introdotto nella nostra società l'allevamento intensivo di tutte le specie edibili - galline, maiali, mucche soprattutto - trasformando queste creature in puri oggetti da reddito. Non si può mangiare un pollo se si conoscono le condizioni della sua nascita e della sua crescita, così come non ci si può cibare di un vitello o di una qualsiasi altra creatura senziente la cui vita sia stata un unico e assoluto percorso di dolore.
Ogni ideologia va lasciata, ogni moralismo abbandonato davanti a questi esseri che ci vivono accanto condividendo il mistero della sofferenza e della morte.
«Amate gli animali» scriveva Dostoevskij nei Fratelli Karamazov . «Dio ha dato loro un principio di pensiero e una gioia senza inquietudine». Dovremmo rispettare questo principio di pensiero e dovremmo abbeverarci a questa gioia senza inquietudine. Cosa c'è di più straordinariamente emozionante, infatti, dello sguardo di una mucca che ha appena dato alla luce il suo vitellino? C'è orgoglio in quello sguardo, sollecitudine, tenerezza, la forma più alta di amore che è quella della maternità. È capitato a molti di noi di ammirare la pienezza di questa serenità durante le passeggiate in montagna, ma a pochi è dato di contemplare gli sguardi delle mucche, delle galline, dei maiali rinchiusi negli allevamenti intensivi.
«Amate gli animali» scriveva Dostoevskij nei Fratelli Karamazov . «Dio ha dato loro un principio di pensiero e una gioia senza inquietudine». Dovremmo rispettare questo principio di pensiero e dovremmo abbeverarci a questa gioia senza inquietudine. Cosa c'è di più straordinariamente emozionante, infatti, dello sguardo di una mucca che ha appena dato alla luce il suo vitellino? C'è orgoglio in quello sguardo, sollecitudine, tenerezza, la forma più alta di amore che è quella della maternità. È capitato a molti di noi di ammirare la pienezza di questa serenità durante le passeggiate in montagna, ma a pochi è dato di contemplare gli sguardi delle mucche, delle galline, dei maiali rinchiusi negli allevamenti intensivi.
La gioia senza inquietudine sostituita da un abisso di dolore, da un'interrogazione sulla sofferenza da cui distogliamo costantemente lo sguardo, perché altrimenti non potremmo più comprare quella carne in offerta al supermercato, né gustare quelle uova prodotte da creature piene di piaghe, con il becco tagliato, le ossa spezzate dall'osteoporosi per non aver mai potuto muoversi nella loro breve vita, o mangiare quei formaggi la cui pubblicità - clamorosamente falsa - ci fa credere prodotti da mucche cresciute felicemente al pascolo. Una mucca da latte, finché cresceva nelle fattorie, amorevolmente curata dai suoi padroni, viveva una media di quindici anni, spesso anche venti. Ora la stessa mucca non supera mediamente i quattro: spinta chimicamente a produrre una quantità di latte superiore alle sue possibilità fisiologiche, presto si sfinisce e si ammala di mastite; per curare la mastite, allora, le si somministrano antibiotici e, se gli antibiotici non funzionano, la si manda al macello. Sarà per questo che siamo tutti diventati allergici al latte?
Così, se pensiamo che il mondo non sia solo l'ottusitàdella materia, non possiamo non essere ossessionati da quegli sguardi, dalla devastazione di quel dolore silenzioso, incatenato e nascosto nell'anonimità dei capannoni. Quello sguardo ci chiede una sola cosa: cos'hai fatto del patto di fiducia che da sempre ci ha legato? Come hai potuto pensare che io fossi un oggetto inerte? Gli oggetti non hanno sguardi, e lo sguardo rimanda sempre all'altro, in uno specchiarsi di reciproca responsabilità. E subito segue un'altra domanda: cosa stai facendo a te stesso, come stai vivendo tu, perché come mi hai ridotto a cosa, anche tu, essere umano, ti stai cosificando. Gli estremi della zootecnia non sono altro che la proiezione di quello che la nostra società sta diventando - un mondo omologato, irregimentato, valutato esclusivamente sul criterio della vendita e del consumo. Un mondo che ha come unico orizzonte la materia e il profitto e che impone ai suoi abitanti, in maniera subdola, la totale anestesia del cuore.
Così, da qualche settimana, non posso liberarmi dallo sguardo di terrore di Alexander, la giovane giraffa scappata da uno zoo a Imola, inseguita per le strade della città dal furgoncino del circo fino a che la morte non l'ha stroncata. Un animale alto cinque metri e di novecentoventi chili costretto a stare in catene, per il divertimento di chi? E non sapevano, gli addetti al circo, che se si vuole riprendere un erbivoro fuggito non si deve mai inseguirlo perché in tal modo si esaspera il suo naturale terrore del predatore? Che tristezza, che dolore, vedere la splendida maestà di quell'animale agonizzare tra le macchine e i marciapiedi di una città italiana! Certo, si dirà, è solo una giraffa che muore. Ma forse è venuto il momento di porci una domanda che reputo piuttosto fondamentale. La questione non è tra essere animalisti o meno, tra essere pro questo o contro quell'altro, ma piuttosto capire se la misericordia e la compassione sono sentimenti che hanno ancora diritto di esistere nel nostro cuore. Perché è evidente che tutta la grande questione della sofferenza evitabile imposta agli animali dall'ottusità dei nostri comportamenti alla fine ritorna a questo quesito. «La misericordia è l'incendio del cuore per ogni creatura», scriveva Isacco di Ninive. «Per gli uomini, per gli uccelli, per le bestie, per i demoni e per tutto ciò che esiste». L'amore, la misericordia e la compassione non sono mai alternativi, ma sempre comprensivi. Non si amano gli animali o i bambini, si amano i bambini e gli animali, perché ciò che separa, ciò che divide non è mai nel segno dell'amore.
Fonte:www.corriere.it
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